Parafrasando il titolo di un celebre film di Alejandro Amenàbar con protagonista un gigante come Javier Bardem, chi nasce a Terracina nasce con il “Mare Dentro”. Lo si capisce parlando con un terracinese doc come Angelo D’Amico che da più di vent’anni, prima da giocatore e adesso d’allenatore, rappresenta quello che è più di un club, il Terracina. Vestire la maglia dei tigrotti è uno stato d’animo, con una città dietro che ti spinge a dare il meglio, un senso d’appartenenza viscerale, l’orgoglio di rappresentare una terra che si rispecchia nelle sue spiagge e nel suo mare, nella sua passione sconfinata per il beach soccer. Spiegare la parabola di Angelo D’Amico con il Terracina significa spiegare vent’anni di beach soccer. E allora partiamo con le domande.
Dopo aver vinto tutto in più di quindici anni da capitano con il Terracina nel 2016 ti sei tuffato in questa nuova avventura da allenatore, cosa ti ha spinto a farlo?
“Al cuor non si comanda, una passione non puoi interromperla, il beach soccer mi ha dato tanto, troppe le soddisfazioni per decidere di smettere. Da capitano del Terracina ho alzato nove trofei, dieci contando quello conquistato da allenatore. Ho iniziato nel 2000 quando la disciplina ancora non era riconosciuta ufficialmente. Ho vinto il premio come miglior giocatore e nel 2003 sono andato a giocare i Mondiali a Rio de Janeiro, da quel momento è iniziata una grande avventura che dura da più di vent’anni. L’unico trofeo che mi manca è l’Eurowinners Cup, la Champions del beach. Ho scelto di continuare nella veste di coach perché già da giocatore mi piaceva studiare e capire nei dettagli il lavoro dei miei allenatori sia di calcio a undici sia di beach soccer. La possibilità di giocare con gli stranieri, brasiliani in particolare, è stata una miniera d’oro, ascoltavo tutti i pareri, mi confrontavo con loro, osservavo con attenzione tutti i metodi di lavoro dei migliori allenatori e giocatori del mondo. E poi al di là delle competenze, la passione è stata la spinta decisiva per iniziare questa carriera in uno sport che amo e che è in continua evoluzione”.
Come hai vissuto il passaggio da giocatore ad allenatore?
“Non è avvenuto dal giorno alla notte, è stato graduale, quasi naturale, non ho improvvisato nulla. Negli ultimi due anni da giocatore ho studiato molto e scambiato informazioni con i migliori di questo sport. Ho preso il patentino Uefa B, ho fatto un corso di match analysis con Mario Savo che ha lavorato con Pep Guardiola nel Manchester City. Lo studio e la formazione sono stati importanti, senza competenze non duri a lungo ma la differenza credo l’abbia fatta l’esperienza di giocare con i più forti ed essere allenato dai migliori al mondo. La mia fonte d’ispirazione è stata senza dubbio Emiliano Del Duca, mi ha portato a vincere tutto, a pretendere tanto da me stesso, a non accontentarmi mai. Non rimani al top per 15 anni se ti accontenti e non vuoi migliorare. E’ stata una fortuna e un privilegio lavorare con lui. Ora si sta togliendo grandi soddisfazioni con la Nazionale, non avevo dubbi, è uno dei migliori allenatori al mondo. Così il passaggio dal rettangolo di sabbia alla panchina non è stato traumatico, mi sono preso le mie responsabilità fin da subito, ho attinto al mio bagaglio di esperienza, ho adattato al mio progetto quanto imparato dai migliori e alla fine ho dato un’impronta personale al Terracina”.
Hai preso in mano un Terracina che in 15 anni aveva vinto tutto con lo stesso allenatore e i migliori giocatori italiani e stranieri. Sei ripartito con un progetto fondato sui giovani, come hai gestito questo cambio epocale?
“Ricevere il testimone da un decano del beach soccer come Emiliano Del Duca non è stato facile, con tutto quello che ha vinto, ha scritto la storia di questo club. Nonostante le premesse non ho sentito la pressione, ero pronto a prendermi le mie responsabilità, a diventare un punto di riferimento per il club, avevo già una mia idea di beach soccer maturata negli ultimi anni da giocatore.La società ha rifondato la squadra con un nuovo progetto costruito su basi solide. A Terracina non s’improvvisa, tutto è studiato nei minimi particolari. Solo così un club domina una disciplina per 15 anni collezionando trofei.La società mi ha messo nelle condizioni migliori per lavorare, mi ha dato carta bianca, ha creduto fin da subito nelle mie idee. Ho puntato sui giocatori del territorio, sui giovani terracinesi e sugli stranieri funzionali al nuovo progetto Terracina. Tutti beachers convinti della nuova dimensione del club nel perimetro di una gestione economica oculata. Ho scelto chi poteva esaltare il progetto e la mia idea di gioco, ho rinunciato ad inseguire campioni giramondo. Mi sono affidato a uno staff eccellente perché una squadra solida si fonda su un’organizzazione capillare. Un bel gruppo affiatato di professionisti, ognuno con le sue competenze, per tirare fuori il meglio dai giocatori concentrati solamente sul rettangolo di sabbia”.
Dopo aver collezionato decine di trofei il Terracina è ripartito quasi da zero nel 2016. Dopo due anni di assestamento siete tornati a giocare una finale nel 2018 alzando un trofeo nel 2019. Come sei riuscito in così poco tempo a riportare Terracina in alto?
“Tanto lavoro, organizzazione, una struttura societaria solida, una pianificazione chiara, un progetto condiviso. Ci siamo posti degli obiettivi graduali ma concreti puntando sulla competenza ed evitando l’approssimazione e i salti nel vuoto. Nel beach soccer come in ogni sport non si conquista nulla per caso, bisogna lavorare per step.Nessuna prima donna, il progetto è stato fin da subito il protagonista del nostro lavoro. Niente stranieri dai grandi nomi ma nei fatti poco presenti. Abbiamo puntato sui giovani del territorio che potessero lavorare con continuità con il gruppo per creare una squadra coesa e affiatata, senza prime donne. Si agli stranieri ma solo quelli pronti a dedicare tempo e energie al Terracina con continuità. Così sono arrivati i risultati fin da subito. Negli ultimi due anni abbiamo centrato due finali di Coppa, siamo arrivati due volte terzi in Campionato e nel 2019 abbiamo alzato la Supercoppa”.
Il rapporto tra il beach soccer e Terracina è profondo, c’è un motivo in particolare?
“Noi terracinesi abbiamo il mare dentro, cresciamo sulla spiaggia, è nel nostro dna. Ricordo fin da bambino appena uscito da scuola le partite e i tornei improvvisati sulla sabbia, sfide interminabili. La spiaggia è il nostro luogo naturale. Ad aprile, ai primi raggi di sole, ci ritroviamo al lido fino a settembre inoltrato. Per un terracinese giocare a beach soccer è come respirare”.
Prima da capitano poi da allenatore, sono più di 20 anni che vesti questa maglia. Si può spiegare a parole questa alchimia?
“Per me questa maglia è una seconda pelle, questa società è casa mia, una seconda famiglia. Son passati più di vent’anni ma per me è come il primo giorno, è un amore infinito. Questa città, questo ambiente, il temperamento di un terracinese è difficile da spiegare. Il rapporto passionale con la città e il club non si può descrivere ma solo vivere. Siamo una grande famiglia, dietro di noi c’è una città intera che tifa per la squadra. Se non ci vivi o ci nasci non lo puoi capire. I tempi cambiano, lo sport risponde alle logiche della globalizzazione ma l’amore per una maglia non ha tempo, non passa mai di moda”.
Tanti giocatori hanno iniziato la carriera con voi diventando i migliori nel panorama mondiale, sia italiani che stranieri. Come si crea un campione?
“La ricetta è complessa e semplice allo stesso tempo, ci vuole tanto lavoro, approccio professionale, sacrificio, comportamenti corretti. Un campione è un esempio per gli altri, ogni giorno, in ogni allenamento e istante di una partita. Solo così si cresce, si arriva in vetta al mondo rimanendoci per tutta la carriera. Terracina ha forgiato tanti beachers portandoli al top, ricordo Bruno Xavier e Llorenc ma soprattutto Francois, un esempio per chi vuole far bene in questo sport. Di campioni italiani in 20 anni Terracina ne ha sfornati a decine, dai pionieri Italo Centola e Ennio Pecchia, passando per il sottoscritto, Simone Feudi, Roberto Pasquali, Paolo Palmacci e Alessio Frainetti che hanno vinto tutto o quasi con i club e la nazionale. Terracina ha formato anche ragazzi che a livello internazionale forse non sono conosciuti ma in Italia, partendo da zero, sono arrivati a vincere tanto. Parlo di Alla, Mucciarelli, i gemelli Olleia e tanti altri”.
C’è un giocatore allenato o con cui hai giocato, italiano o straniero, che ti ha stupito per la sua crescita a 360 gradi come beacher?
“Sono tanti, forse troppi per nominarli. Terracina tira fuori il meglio da un giocatore non solo tecnicamente ma anche umanamente. Da queste spiagge sono partiti in tanti arrivando a scrivere la storia di questa disciplina. Da qui è passato Bruno Xavier che per tante stagioni è stato nominato il miglior giocatore al mondo. A me piace sottolineare la parabola di Roberto Pasquali che per tanti anni ha tenuto in alto le bandiere del Terracina e dell’Italia. Per me l’esempio più bello è quello di Alessio Frainetti che è partito da zero e grazie al lavoro, al sacrificio, all’applicazione e alla passione è arrivato a scrivere pagine indimenticabili in Italia e nel Mondo con il Terracina e la Nazionale. Nessuno gli ha mai regalato nulla, si è conquistato tutto da solo con il sudore e l’applicazione. Alessio è un esempio per tutti i ragazzi che amano questo sport, allenamento dopo allenamento, lavorando duro, si può arrivare in alto perché alla fine il lavoro paga sempre. Aver passato la fascia di capitano ad Alessio è stato un grande onore, se l’è guadagnata, spero che continuerà a vincere tanto, se lo merita”.
Il momento più bello vissuto con il Terracina prima da giocatore e poi da allenatore?
“La prima Coppa Italia vinta non la scorderò mai, dopo tanti finali perse anche ai rigori quell’anno centrammo il triplete. Un’estate indimenticabile. Con la nazionale ricordo con piacere il Mondiale del 2003, gli Europei del 2008 e 2009, ogni presenza con la maglia azzurra rimane indelebile nei mei ricordi. Da allenatore senza dubbio la Supercoppa vinta nel 2019 con il Catania in casa loro. E’ stata un’impresa se pensiamo alla nostra squadra tutta di giovani e un solo nazionale contro una corazzata di campioni provenienti da tutto il mondo, titolari nelle rispettive nazionali. Anche se abbiamo vinto ai rigori, non è stato un successo casuale, abbiamo lavorato molto per arrivare fin lì e siamo stati ripagati”.
Cos’ha di speciale il beach soccer? Perché un ragazzo o una ragazza dovrebbero iniziare a praticare questa disciplina?
“Mi chiedo perché non dovrebbero. E’ uno sport unico nel suo genere, per tutto ciò che ti circonda, la spiaggia, il mare, l’estate, le emozioni che ti regala questa sport non te le regala nessun’altra disciplina. In una sola gara puoi vivere mille stati emotivi che si susseguono senza sosta. Chi inizia a giocare a beach soccer se ne innamora e non smette più di amarlo. Nessun interesse strumentale, il beach soccer è passione pura, si fanno grandi sacrifici solo per seguire un istinto. Non ci sono motivazioni razionali. C’è solo voglia di giocare, divertirsi, stare sulla spiaggia, fare gruppo, fare parte di una squadra, sentire la sabbia tra le dita, il profumo del mare, i colori dell’estate. Un ragazzo può trovare una sua dimensione genuina in questo sport, può provare quella gioia e togliersi quelle soddisfazioni che spesso il calcio a undici non riesce a darti”.